Era il 26 maggio del 2019 quando Alberto Cirio viene eletto presidente della Regione Piemonte. Due anni dopo – quasi interamente condizionati dalla pandemia – Cirio continua a non perdere quella caparbietà e quella forza di rimboccarsi le maniche tipiche dei piemontesi che “hanno fatto l’Italia” e guarda al futuro con ottimismo.
I suoi nonni erano agricoltori. Quali sono i ricordi di Cirio bambino?
Ce n’è uno che mi accompagna da sempre e che ho voluto con me anche qui in Regione. È la foto di mio zio Cesco. Nei suoi 80 anni di vita non l’ho mai visto con un cappotto. C’è una forza nella nostra gente che io credo arrivi proprio dalla terra. Ed è una forza che, mai come adesso, abbiamo bisogno di ritrovare per affrontare uno dei momenti più difficili della nostra storia.
La folgorazione per la politica arriva presto. A 22 anni già candidato ad Alba: perché la politica?
Perché non posso fare a meno di stare tra le persone, sentire di poter fare qualcosa di utile per la mia comunità. La politica è questo, o meglio questo è ciò che dovrebbe essere. Io l’ho sempre vissuta così. La cosa più difficile per me durante la pandemia, oltre alla responsabilità di guidare la nostra Regione in un momento così duro e complesso, è non poter stare tra la gente.
Quando il 29 marzo 2019 fu ufficializzata la sua candidatura alla Regione, disse: “Adesso si corre, con le scarpe da ginnastica ai piedi”. Cirio cos’è, un maratoneta o un velocista?
Diciamo che prima della pandemia avrei detto un velocista. Ma gestire un’emergenza come quella che stiamo vivendo, da più di un anno ormai, richiede non solo velocità ma anche resistenza. Io cerco di affrontare questa maratona con passo veloce. Perché l’unico obiettivo è portare al più presto il Piemonte fuori da questa situazione e farlo ripartire.
Cos’è stato il Covid per Cirio uomo, padre, marito prima che politico?
Io ero presidente da 7 mesi quando il Covid è arrivato e in 7 mesi la sanità né la fai, né la distruggi. Prendi quella che ti ritrovi e affronti la battaglia più difficile dal Dopoguerra ad oggi. Come uomo non dimenticherò mai i giorni della mia malattia, era inizio marzo 2020 e del Covid non sapevamo ancora praticamente nulla. Non scorderò la sensazione di angoscia ogni volta che sentivo i miei figli tossire nella stanza accanto, con la paura di averli contagiati.
Oltre ai vaccini, come si risaneranno le ferite lasciate dal Covid?
Con la forza che i piemontesi hanno nel loro dna, il dna di una Regione che ha fatto l’Italia. Ma anche con le risorse che riceveremo dall’Europa e che useremo per sanare e dare una prospettiva al tessuto economico del nostro territorio. Parlo del Recovery Plan e della programmazione europea 2021-2027, che per il Piemonte si tradurranno in circa 13 miliardi di euro, una cifra enorme che potremmo non rivedere mai più.
A un anno dalla pandemia, qual è la situazione economia della sua Regione?
La pandemia ha sottratto al Pil piemontese 11 miliardi di euro, ma nonostante questo le nostre imprese hanno continuato a investire, in particolare nel manifatturiero, con un valore tra i più alti in Europa, che colloca il Piemonte al primo posto in Italia. L’obiettivo è far tornare a crescere il Piemonte del 3% l’anno.
Quanto potrà incidere il Recovery Fund sulla ripresa dell’economia italiana e piemontese?
Molto, se sapremo rendere queste risorse spendibili subito e in modo semplice, affinché abbiano una ricaduta immediata sul tessuto produttivo ed economico. Per questo abbiamo chiesto al Governo regole speciali, che abbattano le lungaggini della burocrazia.
Nel 1989 in Italia furono immatricolate 2.303.404 auto, di cui 1971.969 prodotte in Italia e soprattutto a Torino. Cosa è successo poi negli ultimi trent’anni?
La tecnologia, insieme a molti altri fenomeni, ha accelerato la terziarizzazione delle nostre società. Questo fenomeno ha avuto conseguenze rilevanti per il Piemonte, con la sua tradizione a forte vocazione manifatturiera e automobilistica. L’impatto della digitalizzazione ha pesato anche sulla competitività, perché oltre il 50% delle imprese italiane non ha investito su questo e accompagnare la transizione digitale delle nostre aziende è più che mai una priorità.
Nel 2020 in Piemonte il 26% degli occupati lavorava nel settore industria. Il 65% tra servizi, commercio e ristorazione. Il Piemonte sta dicendo addio alla sua vocazione industriale?
Un terzo degli stipendi in Piemonte è pagato dall’industria, una vocazione a cui dobbiamo restituire competitività, forti di un patrimonio che non ha eguali per storia, professionalità, manodopera, ma anche per la presenza sul territorio di un sistema di innovazione, ricerca e formazione che può contare su eccellenze come il Politecnico e le nostre Università. Progetti strategici come il Centro di competenze dell’Automotive, la Città dell’Aerospazio e le iniziative di Torino Area di sviluppo industriale complessa vanno in questa direzione. La fusione tra FCA e PSA in Stellantis ha ovviamente particolare rilievo e la nostra attenzione è focalizzata sulle garanzie per il futuro produttivo dei nostri stabilimenti e della forza lavoro. L’elettrico può certamente essere un’opportunità e in questo senso la Regione sta già seguendo alcune iniziative di realtà imprenditoriali che hanno manifestato interesse a investire nelle nuove tecnologie sulle batterie. Come nel caso di Italvolt, che ha scelto il Canavese per dare vita alla prima gigafactory in Italia.
In Piemonte ci sono quasi 100mila imprese guidate da donne e a sorpresa la provincia (Alessandria, Asti, Novara) batte Torino. Quanto è importante puntare sull’occupazione femminile?
È fondamentale non solo perché il lavoro è un diritto, ma anche perché la professionalità delle donne dà valore al nostro sistema economico e produttivo. Per questo lavoriamo a misure strutturali, in un’ottica di programmazione anche europea. È necessario innanzitutto potenziare i servizi per le famiglie, con una riduzione delle tariffe degli asili nido e orari più flessibili. Non ha senso che una donna rinunci al proprio lavoro perché buona parte del suo stipendio finisce nella retta del nido. Un altro punto importante è il reinserimento dopo la maternità, con un supporto formativo che aiuti l’aggiornamento rapido delle proprie competenze.
Da Lavazza a Olivetti, il Piemonte è stato sempre campione di innovazione. La tradizione continua con oltre 4mila brevetti depositati negli ultimi dieci anni. Ma sono lontani i numeri di Lombardia, Veneto ed Emilia. Come si può recuperare il terreno perduto?
Continuando a investire per sostenere i nostri 13 Poli di innovazione, il sistema della ricerca, le start up. Con l’ultima programmazione abbiamo destinato 80 milioni di euro a questo scopo.
Può essere questa l’occasione giusta per reinventarsi abbandonando vecchie abitudini?
Credo che tra le tante cose negative della pandemia ci siano anche aspetti positivi, messi in campo per necessità, sui quali anche in futuro varrà la pena riflettere. Nulla può sostituire il valore della presenza, nelle relazioni private e anche lavorative, ma sicuramente abbiamo imparato che ci sono cose che si possono anche fare a distanza agevolando l’organizzazione del lavoro. Non eravamo così abituati a videoconferenze e smartworking e l’ultimo anno ha dato un’accelerata fortissima a strumenti che possono essere utili.
Qual è a suo parere l’orizzonte temporale per la ripresa?
Dipenderà moltissimo dalla campagna vaccinale. Il Piemonte è fin dall’inizio una delle regioni più virtuose, in testa per quota di popolazione già vaccinata con la doppia dose. Non è una gara, ma per noi è importante perché ripartirà prima chi prima avrà messo in sicurezza la propria gente.
Come se lo immagina il 2030?
Come un periodo di svolta dopo gli anni complessi che stiamo affrontando. Il Piemonte ha fatto la storia d’Italia. Ce la faremo anche stavolta. Uniti e insieme.