Elbano de Nuccio lo chiama il “gioco della coperta corta”. “Quando si battono i denti – dice – è la cosa più stupida che si possa fare: testa o gambe che restino scoperte, sempre di freddo si muore”. Il malato, se non fosse chiaro, è l’Italia. La coperta, invece, è quella tirata una volta per l’Imu, una volta per l’Iva. Per il docente di Contabilità e Bilancio, direttore scientifico dell’Osservatorio sulla Gestione della Crisi d’impresa della Libera Università del Mediterraneo e presidente dell’Odcec di Bari, “vanno cambiati i paradigmi”. In che modo? Andare avanti nella lettura per segnare un po’ di proposte.
Dopo oltre un anno di pandemia, qual è – secondo i dati in vostro possesso – la situazione economica e sociale dell’Italia?
Ci troviamo di fronte ad una piena recessione indotta da una pandemia imprevista ed imprevedibile senza precedenti. Quello che era inizialmente un problema di riduzione dell’offerta è diventato rapidamente un problema di grave carenza di domanda. Infatti, il calo dei redditi, i vincoli alla mobilità e l’incertezza hanno compresso enormemente i consumi e di conseguenza gli investimenti nelle aziende che hanno risentito delle prospettive di domanda ed il loro calo ha contribuito alla riduzione della domanda complessiva. Ad oggi l’evoluzione dell’attività produttiva è condizionata dall’andamento dei contagi e dalle sue ripercussioni sulle misure di contenimento e dai comportamenti delle famiglie e delle imprese. La pandemia, purtroppo, ha colpito un’economia, quella italiana, che non aveva ancora recuperato i postumi della doppia recessione connessa con la crisi finanziaria globale e con la crisi del debito dell’area dell’euro. Le relazioni sociali ed economiche sono state colpite in modo grave. Occorre, quindi, tutelare il tessuto produttivo e sociale del paese, lavoratori, imprese, famiglie, con strategie e strumenti nuovi e senza lesinare risorse per garantire la ripresa economica. Occorre agire subito, senza tentennamenti o resistenze.
Quali sono le istanze che i commercialisti vorrebbero portare sui tavoli istituzionali come contributo per migliorare il sistema-Paese?
Tanto lavoro da fare e poco tempo a disposizione. A situazioni straordinarie bisogna rispondere con soluzioni straordinarie. Sulla base dell’esperienza dei mesi scorsi appare evidente che dobbiamo aprire un confronto a tutto campo sulle principali riforme nel nostro Paese prime fra tutte quella del Fisco. Dobbiamo semplificare, sburocratizzare e ridisegnare il rapporto cittadini, Imprese e Stato, con una reale semplificazione del sistema tributario nazionale con il fine di incentivare l’adempimento spontaneo dei contribuenti pianificando una riduzione del carico fiscale, che pesa sulle famiglie e sulle imprese. Nel breve è necessario mettere in sicurezza i sistemi d’impresa attraverso un accordo tra Fisco e imprese per spalmare i loro debiti tributari in 20 anni. Va ridotta la tensione finanziaria a breve che soffoca le piccole e medie imprese italiane. L’introduzione di misure volte a risolvere problemi strutturali del nostro assetto produttivo potrebbe avvenire più agevolmente in questo periodo, grazie al venir meno di una serie di vincoli imposti dall’Unione Europea, confezionando provvedimenti innovativi e coraggiosi che siano improntati a una visione finalmente strategica del nostro assetto industriale. E noi commercialisti siamo pronti ad affiancare le imprese e le Istituzioni in questo strategico percorso.
Il premier Draghi, varando il nuovo decreto Sostegni, ha detto: “Al tempo del Covid i soldi bisogna darli, non prenderli”. Lo Stato italiano dà o toglie?
Stiamo facendo il gioco della “coperta corta”. E quando si battono i denti, è la cosa più stupida che si possa fare: testa o gambe che restino scoperte, sempre di freddo si muore. C’è chi la tira per Imu e blocco dell’aumento dell’Iva, c’è chi all’opposto la tira per finanziare la cassa integrazione e inventarsi politiche per il lavoro. Vanno cambiati i paradigmi. È necessario concretamente mettere in campo misure straordinarie e strutturali non solo emergenziali e dobbiamo farlo a prescindere dall’Europa. Dobbiamo avere il coraggio di lanciare un progetto che da un lato incentivi, ma obblighi il patrimonio privato a rendersi funzionale allo sviluppo e, dall’altro, che converta una fetta tra il 10% e il 20% della spesa pubblica da spesa corrente a investimenti in conto capitale. Un’operazione da qualche centinaio di miliardi, da spendersi sia riducendo in modo significativo il carico fiscale su imprese e lavoro, sia dando il via ad alcuni piani di infrastrutturazione del paese, sia infine favorendo la nascita di nuove realtà industriali.
Nell’ultimo anno abbiamo conosciuto Dpcm, decreti Ristori, Sostegni, scostamenti di bilancio. Che anno è stato per i contribuenti con tutte le novità previste?
Per quanto attiene al merito delle misure assunte, sicuramente non ha giovato la mancata tempestiva cognizione della dimensione del dramma che si sarebbe concretizzato di lì a poco. Basta una rapida lettura delle norme citate, ovvero di quell’impianto che avrebbe dovuto costituire il fondamento giuridico di tutte le normative che sarebbero state adottate per far fronte all’emergenza, per rendersi conto della confusione e dell’imprecisione di quel medesimo impianto, che evidenzia una chiara sottovalutazione del problema sanitario di fondo. I commercialisti sono stati chiamati sin da subito a sostenere una classe imprenditoriale e produttiva messa in grave difficoltà. A loro il difficile compito di supportare la propria clientela in un momento particolarmente delicato. Oggi l’attività produttiva non può prescindere dalla corretta ed equilibrata gestione fiscale e dell’amministrazione, della finanza e del controllo dei commercialisti. In un tessuto imprenditoriale composto prevalentemente da società e imprese piccole e piccolissime, il commercialista si è dimostrato una figura di assoluto riferimento. La pandemia ha paradossalmente comprovato ancor di più quanto i commercialisti siano “essenziali” nei fatti. Purtroppo, il lockdown ha stravolto anche il mondo dei professionisti che hanno lavorato più di prima pur, vista la situazione, non ricevendo adeguati sussidi. Eppure questa categoria non ha mai abbandonato il campo garantendo un sostegno di prossimità all’intero sistema produttivo nazionale. Mai come adesso, le aziende hanno la necessità di essere supportate e guidate dai loro commercialisti di fiducia, affinché le aiutino a navigare nel mare caotico di normative incerte e di agevolazioni annunciate.
Quanto potrà incidere il Recovery Fund sulla ripresa dell’economia italiana?
Tanto e poco. È bene chiarire sin da subito che senza la modifica di svariate leggi in vigore e la relativa approvazione parlamentare è impossibile realizzare le riforme annunciate dal Governo nelle “Linee guida” e propedeutiche all’arrivo dei fondi europei ma non sarà una passeggiata. Ci vuole una Commissione di tecnici per individuare subito le normative da cambiare e in questa commissione non possono mancare i Commercialisti. Infatti, esaurita la fase delle politicamente facili promesse elettorali su come spendere i fondi UE, ora si apre la fase più ardua che riguarda la volontà riformatrice e la capacità politica della coalizione di governo che deve transitare nelle aule parlamentari per l’approvazione.
“Gli ordini professionali saranno protagonisti del reclutamento di personale funzionale al Recovery Plan”, ha detto il ministro della Funzione Pubblica, Renato Brunetta…
La compliance con le forze politiche e le istituzioni pubbliche va ricercata attraverso il coinvolgimento preventivo dei commercialisti, cioè durante la fase di formazione delle leggi. Farlo dopo serve solo a rimediare alle criticità e alle complicazioni operative createsi. L’interlocuzione istituzionale è un valore aggiunto nei rapporti con i ministeri, con cui è indispensabile concretizzare tavoli tecnici permanenti. L’efficacia e l’efficienza di una norma passa dalla sua coesione sociale. Ovvero quanto più la norma è condivisa e compresa tanto più la stessa sarà funzionale al raggiungimento dell’obiettivo per il quale è stata formulata.
Molte delle imprese italiane che lavorano nel settore della meccanica puntano forte sull’export. Quali sono i gap fiscali e burocratici che queste imprese scontano confrontandosi con partner internazionali?
La sfida che ci attende nei prossimi anni è duplice: da un lato dobbiamo valorizzare sui mercati globali la ricchezza produttiva del nostro Paese e, dall’altro, sostenere le imprese esportatrici in un approccio più strutturato all’internazionalizzazione e il loro inserimento in catene di fornitura più vaste. Non basta vendere all’estero, ma è necessaria una strategia mirata, in cui il supporto del sistema Italia diventi una leva per fare sì che le nostre eccellenze siano competitive diventando protagoniste in un mercato globale sempre più mutevole e incerto. Proprio per questo, è strategico riequilibrare il carico fiscale per favorire la competitività internazionale e la ripresa dei consumi, visto che la caduta della domanda è uno dei principali elementi della crisi. Questo processo richiede alcune condizioni. Innanzitutto, un quadro normativo leggero, chiaro e prevedibile, per sostenere quegli investimenti che incoraggerebbero una solida ripresa industriale. La vera liberalizzazione è la sburocratizzazione del Paese. È quindi necessario rendere più efficace l’interazione tra Pa, professioni, industria, mondo dell’accademia e della ricerca. Un’interazione che attribuisca a ciascuno il proprio specifico ruolo, senza invasioni di campo o pericolosi interventismi. Ma che sappia al contempo innescare circuiti virtuosi, che mettano in valore le potenzialità del nostro Sistema, per favorire uno scambio virtuoso di competenze e di conoscenze verso soprattutto le Pmi per promuoverne innovazione, ricerca ed internazionalizzazione.
Investimenti e innovazione sono le due strade per il rilancio del Paese?
Assolutamente sì. Tuttavia, è bene chiarire che la capacità innovativa è un fenomeno complesso. Coinvolge molti soggetti e istituzioni. Non v’è dubbio che la spesa in innovazione sia un input decisivo. Ma non è il solo fattore che conta. In questi anni l’importanza degli investimenti per il rilancio della crescita e dell’occupazione in Italia è stata sottovalutata. La ripresa degli investimenti rappresenta una strada altrettanto fondamentale per uscire dalla crisi. Il governo può e deve fare molto per rimuovere le barriere che frenano gli investimenti, anche nel breve periodo e nel difficile contesto economico attuale. Le imprese devono ritrovare fiducia nel futuro, modificare la loro percezione del rischio e potenziare le loro capacità di impiego del capitale.
Quanto è importante investire sulla digitalizzazione?
La digitalizzazione è un processo fondamentale per le piccole e medie imprese, che devono lottare ancora più duramente per imporsi sul mercato. Le loro risorse sono minori rispetto a quelle di una grande azienda. La digitalizzazione si rivela, quindi, una scelta necessaria, capace di apportare tanti vantaggi in un’azienda. Con la pandemia, infatti, tutti, imprese, istituzioni e singoli cittadini, hanno dovuto fare, rapidamente, alcuni cambiamenti che finora avevano rinviato. Ci troviamo perciò nella situazione paradossale in cui mai come oggi le imprese avrebbero a disposizione un pubblico vastissimo online, ma non investono adeguatamente per raggiungerlo o per adattare gli strumenti della comunicazione alla nuova realtà uscita dal lockdown. Anche nei comportamenti di consumo abbiamo osservato cambiamenti rilevanti nel modo di approcciare gli acquisti. E in questa fase di trasformazione è essenziale e strategico per le aziende essere presenti laddove i consumatori sono presenti, ovvero la rete e i Social.
La pandemia quanto ha cambiato il vostro lavoro? Un evento così impattante sulla vita delle persone può essere l’occasione giusta per “reinventarsi” abbandonando vecchie abitudini?
Il virus e la pandemia hanno rimodulato radicalmente i nostri stili di vita, nella quotidianità e soprattutto nell’ambito professionale. Molti commercialisti hanno riconsiderato gli spazi degli uffici dopo il lockdown, altri hanno potenziato lo smart working. Tutti sono stati chiamati al cambiamento aggiornandosi sulle nuove misure di sicurezza, lavorando a distanza e prendendo nota di tutte le iniziative e i decreti governativi emanati. Inutile dire che la pandemia ha colto tutti di sorpresa: i cambiamenti hanno portato la nostra categoria ad adeguarsi a una realtà diversa: lavorativa, privata, urbana, ambientale e sanitaria. Come Ordine dei commercialisti baresi non potevamo esimerci dall’affrontare il problema e metterci in prima linea. I mezzi migliori per il cambiamento sono stati il confronto, la capacità di trovare soluzioni e ovviamente la formazione e l’aggiornamento dei nostri colleghi.
Qual è a suo parere l’orizzonte temporale per la ripresa?
Il quadro dei prossimi anni è incerto, per quel che riguarda sia la domanda aggregata sia la capacità produttiva. Occorre rimodulare le politiche attuali e introdurne di nuove, a sostegno dei redditi più bassi, per ridurre gli effetti permanenti della crisi. Sarà necessario avviare un vasto programma di investimenti pubblici europei, in aggiunta a quelli nazionali, che richiederà l’apertura di un cantiere istituzionale che renda permanente il programma Next Generation EU e lo metta al servizio di una rinnovata politica industriale europea. Per far questo ci vorrà del tempo. Il 2022 è la data stimata da molti analisti per il ritorno ai livelli pre-crisi di fatturati e redditività delle imprese poiché il contesto di pandemia globale ha costretto la maggioranza delle imprese italiane a modificare i piani di investimento previsti nei prossimi 12 mesi: oltre la metà ha posticipato gli investimenti pianificati, mentre più di un terzo ha interrotto del tutto il piano di sviluppo, in attesa di un orizzonte più chiaro.
Siamo in ritardo rispetto ai nostri competitor internazionali?
Gli esperti prevedono che alcuni Paesi avranno bisogno di diversi anni per tornare ai livelli pre-crisi. I Paesi con le economie basate sul turismo saranno quelli che soffriranno di più e l’Italia è uno di questi Paesi. Gli Stati Uniti e la Cina saranno i leader del mondo “post-pandemia”. Washington guiderà la ripresa con trilioni di dollari di spesa pubblica per stimolare la ripresa economica. Invece il successo di Pechino è dovuto alla sua lotta efficace contro la pandemia a livello nazionale. Gli analisti economici prevedono una crescita dell’economia mondiale a ritmi record che non si vedevano dagli anni ’60 e sarà pari al 6,9% a livello globale. Tuttavia, questo tasso di crescita non sarà una prerogativa in tutti i Paesi a seguito dei diversi ritmi di vaccinazione e disponibilità di vaccini. I Paesi in via di sviluppo e l’Unione Europea, in primis Francia e Italia, sono tra i ritardatari.
Come se lo immagina il 2030?
Cosa ci attende nel futuro? Una domanda che ci facciamo sempre, ogni anno, ma che oggi si colora di ben altre sfumature. A mio avviso, nonostante queste sfide, gli stravolgimenti che stiamo vivendo ci offrono l’opportunità di riavviare le priorità per la ripresa e di rafforzare le tendenze positive che possono contribuire a rendere la nostra società e le economie mondiali più inclusive, sostenibili e resistenti agli sconvolgimenti futuri. Ora che i vaccini saranno disponibili su larga scala, sta ai leader di governo e del settore privato compiere un atto di fede e spostarsi sempre di più dall’idea di gestione della crisi verso la creazione della nuova normalità, per diventare nel 2030 più resilienti di fronte a sconvolgimenti globali futuri.