Vincere la sfida della ripartenza, programmando oggi per ripartire domani, senza aspettare l’arrivo delle emergenze. È con questa formula che il governatore della Liguria, Giovanni Toti, sintetizza il compito che attende l’Italia e la sua Regione nei prossimi mesi. Un obiettivo raggiungibile sommando più ingredienti: vaccini, ristori e aiuti ai lavoratori e alle imprese, ma anche un passaggio culturale che supporti le buone pratiche che hanno funzionato davvero. Come quelle applicate al nuovo ponte di Genova. Ne abbiamo parlato con lui.
L’Italia fatica a rialzarsi, i commercianti protestano, i ristori non sono sufficienti, l’intero comparto dell’economia è in difficoltà. Quali sono a suo avviso i passi necessari per rialzarsi nel minor tempo possibile?
La regola principale, il mantra della politica e dell’economia dovrebbe essere uno solo: programmare oggi per partire immediatamente domani. Quando la pandemia finirà non avremo il tempo per guardarci intorno: dovremo essere già pronti al balzo, perché solo i Paesi che sapranno già cosa fare e come muoversi vinceranno la sfida della ripartenza, che sarà una sfida paragonabile a quella della ricostruzione nel dopoguerra, qualcosa che l’Italia non vede e non vive da 70 anni. Il passo necessario ora è il sostegno alle attività che hanno dovuto fermarsi e ai lavoratori che hanno perso il lavoro senza alcuna colpa. È vero, i ristori non sono sufficienti, occorre fare di più, ma la questione è molto più ampia: il piano nazionale di ripresa e resilienza è un’occasione da non sprecare, ma per non correre questo rischio occorre una semplificazione normativa che deve arrivare al più presto.
Qual è la scala delle priorità dei prossimi mesi?
Completare al più presto le vaccinazioni di chi corre i rischi maggiori: gli over 80 e i fragili, poi gli over 70. Finché queste fasce di popolazione non saranno protette non potremo fare molto di più di quanto abbiamo fatto finora. Poi procedere alle riaperture, nella massima sicurezza possibile: conosciamo il Covid meglio di un anno fa, possiamo prevedere l’andamento della diffusione del virus e, in base a quello, provare almeno a programmare le prossime riaperture. Il danno portato all’economia è già enorme e comporta un suo rischio specifico che non può essere messo in competizione con il rischio per la salute, ma non può neanche essere totalmente ignorato.
Liguria significa turismo. Come se la immagina questa estate?
L’estate scorsa abbiamo visto che il bel tempo riduce molto l’incidenza di casi gravi e conseguentemente i ricoveri. Non azzera però il contagio: le persone continuano a infettarsi, si ammalano raramente ma il virus continua a circolare, favorito dalle maggiori interazioni sociali del periodo. Allora dobbiamo chiedere agli operatori turistici di non abbassare la guardia, di applicare le regole di sicurezza e di chiedere agli ospiti degli alberghi, dei ristoranti, degli stabilimenti balneari di rispettarle, come hanno fatto già l’estate scorsa con ottimi risultati. Confidando nella maggiore immunità dovuta all’avanzare della campagna vaccinale quest’anno penso che andrà meglio: ma solo se le regole verranno rispettate. Si è parlato del passaporto vaccinale come strumento idoneo anche a limitare il rischio nelle regioni turistiche: penso che possa essere utile, ma solo quando tutte le fasce di età saranno state raggiunte dalla campagna.
Si dice Liguria e si pensa anche a industrie meccaniche, da Ansaldo a Oto Melara, alla cantieristica navale: qual è la situazione?
Tutte le grandi industrie liguri hanno dovuto fermare la produzione per almeno un periodo nel 2020, con conseguente cassa integrazione e ritardi sulle consegne. A seguito della contrazione del mercato a livello globale sono arrivate meno commesse, ma altre importanti non sono mancate e le aziende, in alcuni casi, hanno raggiunto accordi con le rappresentanze sindacali per incentivi sulla produzione in modo da recuperare, almeno parzialmente, il tempo perduto. L’impressione è che l’industria ligure sia viva e ben attrezzata per rilanciarsi nella competizione non appena ci saranno segnali di ripresa. Per i grandi gruppi sicuramente è così, vedo invece in maggiore difficoltà l’indotto e le piccole e medie imprese sulle quali i mesi di stop pesano molto di più: ma ho grande fiducia nella tenacia e nella capacità di reazione dei nostri imprenditori, che aiuteremo con tutti gli strumenti che avremo a disposizione.
C’è uno spiraglio in fondo al tunnel?
Certamente, ma il tunnel è ancora lungo e occorre l’impegno di tutti. La fine della pandemia è più vicina rispetto alla scorsa primavera, e più avanziamo più la luce guadagna campo. Ma abbiamo imparato che il nemico che stiamo combattendo è insidioso, e quando ci rilassiamo colpisce più duro: sarà così fino a quando la progressione delle vaccinazioni non raggiungerà una percentuale abbastanza significativa della popolazione da tagliare la strada ovunque al virus. In ogni caso, penso che le abitudini di protezione che abbiamo preso nell’ultimo anno ci accompagneranno ancora per un po’, anche dopo che tutte le attività saranno state riaperte e saremo tornati alla nostra vita di sempre.
Allargando il discorso, a un anno dalla pandemia qual è la situazione della sua Liguria?
La Liguria ha subito le conseguenze del resto d’Italia, con qualche differenza nel bene e nel male. È la regione più vecchia e quindi ha avuto un maggior numero di casi gravi e di decessi, in percentuale, rispetto ad altre regioni. Per contro, tutti i focolai che si sono verificati sono stati circoscritti e risolti in un tempo relativamente breve, a differenza di quanto accaduto in alcune aree del Nord con densità di popolazione e intensità di spostamenti interni maggiore rispetto alle nostre città. La terza ondata da noi ha avuto conseguenze meno gravi e siamo stati l’unica regione in giallo e arancione (perché imposto a livello nazionale) circondati da regioni che avevano purtroppo un andamento del contagio da zona rossa. La nostra politica di intervenire e inasprire le misure tempestivamente e solo dove era necessario si è dimostrata vincente e ci ha permesso di arginare la potenza del virus senza però compromettere, soprattutto dal punto di vista economico, altre realtà dove il contagio stava dando una tregua. Dovremo affrontare i problemi del lavoro: troppi l’hanno perso, troppi hanno visto ridotte al lumicino attività che servivano per mantenere le loro famiglie. Questo sicuramente, dopo quello sanitario, è il problema che tutti siamo chiamati ad affrontare.
Voi siete stati un modello per il nuovo ponte di Genova, ma quel modello è replicabile?
È replicabile se le istituzioni, tutte insieme, prenderanno atto che per fare bene non è necessario attendere le condizioni eccezionali di un evento tragico. È sempre possibile tagliare la lentezza della burocrazia e mettere a punto le giuste sinergie con le imprese private per le opere pubbliche prioritarie, quelle da cui dipendono sviluppo economico ed efficienza logistica del nostro sistema Paese, senza rinunciare ai dovuti controlli e garanzie democratiche: è davvero possibile sempre, non soltanto quando sentiamo la pressione dell’emergenza. Il modello Genova ha inaugurato un metodo nuovo di collaborazione tra pubblico e privato, sotto la stretta regia pubblica ma con l’efficienza e l’orientamento al risultato tipica del privato. A più riprese nell’ultimo anno ho parlato, a livello di suggestione, di applicare il modello Genova anche all’emergenza Covid, ma sono convinto che il vero passaggio culturale si vedrà quando non sarà necessario attendere un’emergenza per applicare i metodi che funzionano.
Il premier Draghi, con la sua credibilità internazionale, è l’uomo giusto per il rilancio dell’Italia?
Può fare e sta facendo moltissimo per dare più peso all’Italia, non c’è dubbio. Gli ho parlato in questi giorni e ho trovato grande disponibilità e apertura sui temi del piano vaccinazioni e del rilancio economico del Paese. Ho espresso in questi mesi alcune critiche su come il Governo ha affrontato fino ad ora il nodo delle riaperture, che non è una questione da poco anche nel rapporto con gli altri Paesi dell’Unione: l’Italia in estate è una delle destinazioni più importanti per il turismo europeo e occorre dare certezze a breve alle imprese che devono programmare la stagione. Anche sul piano nazionale di ripresa e resilienza mi aspetto qualcosa di più di quanto il Governo ha detto e fatto fino ad ora: se non altro un’interlocuzione più sollecita e fattiva con le regioni, che hanno il polso del territorio e quindi un know-how difficilmente sostituibile su come e dove indirizzare le risorse.
Quanto potranno incidere i fondi della Next Generation Ue?
Moltissimo. Il Recovery Fund è un passaggio epocale: fino al 2026 l’Italia avrà a disposizione 200 miliardi, circa due volte il Piano Marshall. Non dobbiamo perdere tempo. Ho chiesto al Consiglio regionale di istituire una commissione che segua e monitori il Next Generation EU per tutto ciò che può riguardare il nostro territorio, in modo che nessuna occasione venga persa. L’opportunità va ben oltre la presente emergenza: non si tratta solo di uscire da questa strettoia ma di uscirne bene, con un’idea chiara di futuro e di sviluppo sostenibile, sfruttando le risorse che avremo a disposizione per rinnovare processi, connettere le nostre infrastrutture con le reti europee, dare alla nostra Regione una prospettiva diversa che motivi i giovani a progettare qui vita e lavoro.
Una crisi è anche una opportunità di cambiamento. Quali sono a suo parere le ‘cattive’ abitudini da estirpare?
Fino a pochi anni fa la Liguria era troppo rassegnata a una marginalità che era la risultante della crisi delle grandi industrie, dell’invecchiamento della popolazione, dell’isolamento infrastrutturale. Questa rassegnazione ha prodotto scorie che sono ancora in circolo, anche se abbiamo cambiato marcia. La Liguria è per vocazione un nodo di scambi commerciali e culturali, e in quanto tale può recuperare una sua centralità, anche in uno scenario globale sempre più complicato. Deve però credere nelle proprie energie e potenzialità, non rimanere ripiegata su un passato che non tornerà.
Come immagina la Liguria del 2030?
Me la immagino come una regione molto più giovane di adesso, per cominciare: una terra bellissima in cui i giovani trovano motivi sufficienti per giocarsi la propria realizzazione umana e professionale. Una regione la cui economia è guidata da una parte dal sistema portuale, sempre più e sempre meglio interconnesso con l’Europa e il Mediterraneo e dalle imprese hi-tech che hanno preso ormai stabilmente il testimone di una grande tradizione industriale, da un’altra parte dal turismo. Un territorio che ha puntato sulle proprie risorse naturali e ambientali, preservandone l’unicità ma valorizzandone al massimo le attrattive. Una comunità che ha imparato la lezione della pandemia e ha dimensionato e attrezzato la sanità per fare fronte a eventuali emergenze future, che ha costruito gli ospedali che le servono e ha fatto crescere parallelamente l’assistenza territoriale per raggiungere tutti agevolmente. Un sistema di imprese che fa rete per cogliere le opportunità del mercato, che ha riscoperto la responsabilità e la convenienza della formazione dei giovani e della solidarietà tra generazioni negli ambienti di lavoro. Non è un libro dei sogni, è l’esito auspicabile di un processo che è già cominciato: sta alla responsabilità di tutti portarlo a termine.