Durante l’intervista con Francesca Re David – romana, classe 1959, segretaria generale della Fiom-Cgil – la parola “fabbriche” ricorre diverse volte. Non solo come sinonimo di aziende ma proprio come luogo fisico in cui – negli anni – si sono incrociate le storie dei lavoratori e le battaglie del sindacato. La pandemia non ha scalfito lo spirito battagliero di questa donna cresciuta a pane e PCI e che nel sindacato ha svolto un lungo cursus honorum. Nel 1987 ha iniziato a collaborare con la Cgil occupandosi di salute e sicurezza nei luoghi di lavoro, prima di andare, nel 1990, per sei mesi in Brasile da cooperante con i metalmeccanici della Cut (il sindacato di cui è stato leader l’ex presidente Lula).
Poi, nel 2017, dopo 115 anni è stata la prima donna a guidare una federazione di metalmeccanici, la Fiom. Cosa ha significato per lei?
Ho trascorso tantissimi anni in Fiom con incarichi e posizioni diverse. Poi nel 2017, quando è arrivato questo incarico, per me è stato un grande onore. Un onore e una sfida da vivere anche con un pizzico di incoscienza. Perché questo è un lavoro che ti prende la testa e il cuore.
Le donne sono portate più degli uomini alla concertazione?
Le donne danno molto valore alle relazioni, alla capacità di contaminazione e alla forza dell’ascolto dell’altro. In una fase in cui si è un po’ perso il valore dell’ascolto, sicuramente le donne sono per la collegialità e questo si è visto anche nella firma dell’ultimo contratto. La Fiom negli ultimi anni ha puntato molto sull’ascolto e sulla collegialità delle decisioni.
Decisioni collegiali che sono valse a Francesca Re David la chiusura dell’accordo per il rinnovo del Ccnl sottoscritto da Fim-Fiom-Uilm e Federmeccanica-Assistal il 5 febbraio scorso. Il contratto – che prevede importanti aumenti in busta paga per i lavoratori – è stato anche discusso e votato nei luoghi di lavoro, in presenza e da remoto. In particolare, il numero delle aziende nelle quali si sono svolte le assemblee è risultato pari a 6.538 per un totale di 704.394 dipendenti. Hanno votato 374.392 lavoratori e lavoratrici, i voti favorevoli sono stati 351.366 (pari al 95,23%), 22.000 i contrari (pari al 4,77%). Una mobilitazione importante, considerando che siamo ancora nel pieno di una pandemia.
Lei si è laureata in Storia con una tesi sul PCI. Quanto le è servita la “scuola del PCI” quando ha intrapreso la strada del sindacato?
Sono arrivata nel PCI senza avere alle spalle una famiglia comunista. Sono cresciuta in un quartiere dove c’era molta Destra e io invece durante gli anni della scuola mi sono avvicinata al PCI. Per i giovani dell’epoca aderire ad un partito voleva dire trascorrere le giornate a confrontarsi e discutere, partecipando attivamente alla vita dei grandi partiti di massa. Poi da lì sono arrivata al sindacato dopo altre esperienze lavorative.
Nel 1990 è entrata in Cgil dove si è occupata di politiche per i disoccupati e giovani in cerca di lavoro. Secondo lei il sindacato è in grado di rappresentare adeguatamente i giovani?
Ci sono tre aspetti da analizzare su questo tema. Il primo: quando noi eravamo giovani, crescevamo con una forte cultura politica, data già dalla famiglia e dalla scuola. Quella cultura politica portava poi anche all’iscrizione a un sindacato quando si entrava nel mondo del lavoro. Oggi manca quel senso di appartenenza. Il secondo: oggi i lavoratori sono più precari e anche più soli. Il terzo: non esiste più il collocamento pubblico. Al netto di queste considerazioni, è più difficile arrivare alle giovani generazioni perché non c’è un automatismo legato all’ingresso nel mondo del lavoro e all’iscrizione al sindacato. Eppure nelle fabbriche ci sono tanti giovani; molti sono iscritti al sindacato, ma sicuramente dobbiamo fare di più per loro.
In un’intervista ha dichiarato: “Noi, come Fiom, vogliamo rimettere al centro i valori sociali”. Quali sono oggi alla luce di un anno di pandemia?
Il sindacato deve avere un’idea sociale, che è quella di mettersi al servizio degli altri. Dopo un anno di pandemia, la sensazione è che si proceda a una “americanizzazione del sindacato”, ovvero ogni azienda fa per sé con accordi individuali. I valori sociali, per me, restano sempre l’inclusione, la solidarietà, la lotta alle disuguaglianze.
A un anno dalla pandemia qual è la situazione economica dei lavoratori italiani?
La nostra prima preoccupazione, dopo l’arrivo della pandemia, fu quella di mettere in sicurezza i lavoratori nelle fabbriche con rigidi protocolli. Purtroppo c’è stato un ricorso enorme alla cassa integrazione, con una forte perdita di reddito netto da parte dei lavoratori. Negli ultimi mesi, invece, l’industria è in grandissima ripresa, c’è tanto ricorso agli straordinari. Ma in Italia manca la visione di un piano industriale strutturale.
Il Recovery Plan rappresenta una grande opportunità per l’Italia. La Fiom è stata coinvolta nella stesura del piano?
Né la Fiom né gli altri sindacati sono stati coinvolti. Siamo stati chiamati a partecipare agli Stati Generali voluti da Giuseppe Conte, ma non ci siamo mai confrontati sui temi del Recovery.
Non sarà che la politica giudica il sindacato “di protesta e non di proposta”?
No, la verità è che l’Italia ha pensato che il mercato si auto regolamentasse. Le aziende e il Governo hanno sempre pensato ad un sindacato subalterno alle scelte industriali. Ma tutto questo non funziona perché le imprese sono fatte dai lavoratori. E se i lavoratori non sono tutelati, se non sono contenti del loro contratti e della loro vita in azienda, anche le imprese non funzionano.
Il settore dell’industria meccanica quanto ha sofferto?
Ha sofferto a causa della pandemia, arrivando a un -11% nel 2020. Già nell’ultimo trimestre dello scorso anno, però, c’è stata una ripresa. Quello che mi preoccupa è la salvaguardia e il futuro dei grandi asset strategici del nostro Paese. Nell’elettrodomestico, nonostante il settore sia in una fase di grande ripresa, si chiude lo stabilimento Whirlpool di Napoli. Il settore aereo civile durante la pandemia ha sofferto moltissimo, mettendo in ginocchio molti stabilimenti soprattutto al Sud. Nel settore dell’automotive, in tutto il mondo si investe sull’elettrico, mentre con Stellantis non sappiamo ancora quale futuro ci sarà per l’auto e per i lavoratori.
Sarebbe necessario un tavolo attorno al quale sedersi e discutere che politica industriale vogliamo per il futuro del Paese…
Ognuno di noi, sindacati e aziende, ha delle competenze da mettere in campo. Ma bisogna fare delle scelte precise. Oggi alcune imprese sono ferme perché manca un microchip che acquistiamo dalla Cina, ma lì magari la produzione è bloccata. Perché non torniamo a produrre certa componentistica in Italia? Bisogna fare investimenti e innovare, noi siamo pronti a confrontarci su questi temi.
Si dice che le crisi possano servire ai lavoratori per “reinventarsi”…
E’ un po’ semplicistica come frase. Noi come sindacato abbiamo introdotto la Formazione come diritto dei lavoratori nel contratto. Ma è sbagliato pensare che ognuno è imprenditore di sé stesso. La formazione è una leva importante, ed è giusto farla durante l’orario di lavoro. Ma a volte sorrido quando sento dire che mancano i lavoratori qualificati. La verità è che molte aziende cercano lavoratori qualificati, ma poi gli offrono 800 euro al mese. Una persona formata e qualificata va pagata adeguatamente.
Siamo in ritardo rispetto ai nostri competitor internazionali?
Siamo in ritardo di qualche decennio. In Francia e Germania – tanto per citare i nostri principali competitor in Europa – non c’è settore dell’industria in cui non ci sia la partecipazione dello Stato. Invece noi abbiamo svenduto i nostri asset e da anni manca una chiara politica industriale…
In Italia spesso troppo Stato non ha fatto bene alle imprese…
Non credo affatto in questa tesi. In Italia ci sono tantissimi esempi di aziende che, anche grazie allo Stato, primeggiano nel mondo. Non penso a una statalizzazione ma un supporto nelle fasi di investimento delle aziende.
Come se lo immagina il 2030, con più o meno sindacato?
Spero con più sindacato. L’Italia ha creato lavoratori più fragili; questo ha prodotto anche meno sindacato, ma vedo segnali di ripresa.
Quanto le manca la piazza, simbolo per eccellenza delle lotte sindacali, dopo oltre un anno di pandemia?
Molto. Perché il nostro lavoro è fatto di confronti democratici. E i lavoratori l’unico strumento che hanno è quello di scioperare e manifestare. I metalmeccanici, anche nell’ultimo anno, ha fatto 6.500 assemblee nelle fabbriche. Abbiamo cercato di non perdere i contatti. Ma speriamo di tornare presto in piazza. Per una grande manifestazione sui diritti civili.